Roma è, tra i principali centri italiani, quello con le rette più basse.
Ulteriori tagli comporterebbero la chiusura di decine di strutture e la mancanza di assistenza per 2000 persone. Lo gridano al Sindaco Marino oltre 900 organizzazioni del Terzo settore.
di Antonella Patete – Rete Solidali
Qualche settimana fa hanno lanciato il loro grido di allarme al sindaco Marino, stremate dalla carenza ormai strutturale delle risorse indispensabili
per tirare avanti. È un evento più unico che raro quello che ha visto 900 realtà tra associazioni, cooperative e reti sociali sottoscrivere un appello comune per denunciare la situazione di estrema precarietà in cui versano le case famiglia romane. Una crisi che rischia di provocare la chiusura di decine di strutture, che, tutte insieme, danno ospitalità a circa 2.000 persone, tra minori e disabili. Sono infatti oltre 1500 i ragazzi e 380 gli individui con disabilità che vivono in vere case piuttosto che in istituti, rispondendo a un’idea di accoglienza per anni promossa dal Comune. Così a chiedere con forza di non tagliare ulteriormente, ma di incrementare il bilancio del 2014 e degli anni successivi sono i maggiori coordinamenti e federazioni cittadini: Casa plurale che rappresenta le organizzazioni del Lazio impegnate nel sostegno delle persone con disabilità, Coordinamento nazionale comunità per minori (Cncm), Coordinamento nazionale comunità di
accoglienza (Cnca) Lazio, Federsolidarietà, Lega Coop Lazio, Agci Solidarietà, Forum terzo settore Lazio, Movimento Social Pride, Movimento Diamoci una mano e Coordinamento romano affido.
“Il grado di civiltà di una città, in questo caso la Capitale, si misura dalla capacità di accogliere e prendersi cura dei cittadini più deboli – si legge nell’appello –. Senza risorse economiche adeguate tutto rischia di trasformarsi in una mera enunciazione di principio, priva di efficacia e di verità. Ormai le spese per offrire un’accoglienza di tipo familiare e professionale non sono più sostenibili con le attuali rette previste dal Comune di Roma”.
NON È SOLO QUESTIONE DI SOLDI, SERVE UN INTERVENTO A LIVELLO LEGISLATIVO…
Ed è proprio sulla questione delle rette che puntano il dito gli operatori scesi in piazza ad aprile per esprimere la propria preoccupazione con un gesto simbolico eclatante: il lancio delle chiavi delle case famiglia nella Fontana di Trevi. Il fatto è che, tra i principali centri italiani, da Milano a Palermo, la Capitale è quella che prevede le rette giornaliere più basse. Infatti, rendono
noto i promotori, nelle altre città, a parità di costi, le rette per i minori sono in media pari a 108,80 euro contro i 69,75 euro (pro die e pro capite) oggi previsti a Roma. Mentre le rette per le persone adulte con disabilità dovrebbero essere pari a 286,64 euro per i casi più gravi e di 222 euro per le persone in situazioni più lievi a fronte dei rispettivi 144,15 euro e 105,11 euro di Roma.
«Siamo di fronte a bisogni e richieste sempre crescenti che non dipendono solo dalle migrazioni, ma anche dalla situazione di disgregazione che riguarda sempre più nuclei familiari», spiega Salvatore Carbone, responsabile de La Nuova Arca, una casa famiglia per mamme e bambini italiani e stranieri, situata in un pezzo ancora integro di campagna romana, all’altezza del santuario del Divino Amore. Nata nel 2009 intorno a una famiglia che ha deciso di fare dell’accoglienza la propria missione, la comunità si avvale di un largo giro di operatori e volontari ed ha fondato una cooperativa di tipo A e B, che oltre all’accoglienza affronta tematiche di integrazione lavorativa e di agricoltura solidale. «Storicamente la città di Roma ha sempre rappresentato un’eccellenza, ma dal punto di vista attuativo il tema delle case famiglia non viene più seguito come si dovrebbe». Le difficoltà economiche, infatti, non sono le sole. «È necessaria
anche una rivisitazione legislativa», sottolinea Carbone. «Nel caso delle madri con bambini si tratta spesso di donne con vissuti difficili radicati nella loro età e nelle relazioni che hanno conosciuto o subìto. E che ora hanno bisogno di aiuto nel superare i propri problemi e di essere sostenute nello svolgere il ruolo genitoriale. Ma queste donne sono invisibili nell’attuazione dei servizi, per loro è previsto nulla o quasi nulla: appena 13 euro nei primi sei mesi di permanenza per poi passare a zero. Mentre l’impegno richiesto per seguire queste situazioni è molto alto, occorrono tanti professionisti, operatori, psicologi, assistenti sociali».
Tra le altre emergenze cittadine quella degli appartamenti in semi-autonomia. Una questione che riguarda chi, una volta maggiorenne, perde la protezione dei servizi sociali per ragioni di età ed in ogni caso riguarda utenti che affrontano problematiche abitative e lavorative incompatibili con le loro situazioni. E ancora una volta, se lasciate sole, le case famiglia possono trovarsi di fronte a sforzi e costi insostenibili. «Servono tavoli trasversali per fare il punto della situazione e trovare soluzioni comuni, spesso anche con risparmi economici e migliori risultati sociali», spiega Carbone.
…E UN PROGETTO CONDIVISO CON IL COMUNE, CHE È FERMO
Sulla necessità di riaprire un canale di comunicazione con l’amministrazione comunale è d’accordo Alessandro Iannini, responsabile della casa famiglia del Borgo Ragazzi Don Bosco, storica struttura situata nel quartiere di Centocelle dove trovano ospitalità adolescenti maschi e femmine.
«Accogliamo otto ragazzi dal territorio, più uno o due che stanno con noi soltanto durante il giorno e altri che seguiamo in progetti di semiautonomia», spiega. «Ma dal 2009 le rette sono rimaste immutate, un grande problema per chi, come noi, ha fatto la scelta di puntare su un’équipe educativa stabile con contratto nazionale di categoria ». Inoltre il Comune tarda nei pagamenti
e «noi non riusciamo a pagare gli stipendi tutti i mesi», prosegue Iannini che ricorda come la situazione si sia ancora aggravata con la trovata del “pro soluto”. «È un accordo tra le case famiglia e alcune banche individuate dal Comune, che saldano subito le rette ma trattengono il 4%. E molti, allo stremo, hanno dovuto adeguarsi». Il tutto nella totale assenza di un progetto condiviso che indirizzi il lavoro delle case famiglia di concerto con i servizi sociali comunali. «Se ci fosse una maggiore progettazione si potrebbero ideare anche servizi più vantaggiosi », insiste. «Oltre all’adeguamento delle rette, chiediamo il ripristino di una modalità progettuale che ci permetta di lavorare serenamente. Mancano tavoli di concerto delle politiche di accoglienza. Il Comune è fermo, e noi procediamo all’impronta, spesso costretti a fare fronte all’emergenza».
All’appello si è unito anche il direttore della Caritas romana, monsignor Enrico Feroci, che ha invitato ad «ascoltare la voce degli ultimi, di chi non può scegliere, affinché i loro bisogni diventino le priorità nelle scelte dell’Amministrazione comunale e dell’Assemblea capitolina». In una nota, infatti, la Caritas di Roma ha auspicato che “si sappia trovare la giusta soluzione per le famiglie e per le persone che lavorano nel settore dell’assistenza invitando gli amministratori pubblici, pur in un contesto di grave difficoltà economica, ad un discernimento affinché sia consentito alle case famiglia – attraverso l’erogazione di rette adeguate ai
servizi offerti – di continuare a garantire assistenza”.