È la strada del “fare”, del fare per chi è in difficoltà, il futuro della fede. Ne è convinto Don Stefano Aspettati, direttore del Borgo Ragazzi Don Bosco, Istituto salesiano, centro di formazione professionale e accoglienza minori. Il Borgo è una piccola città in una città immensa e per certi versi difficile. Siamo a Roma, ma non nella Roma del centro, dei turisti e dei caffè all’aperto. Siamo sulla via Prenestina, a due passi dal Quarticciolo, quartiere-dormitorio in cerca di riscatto. Un luogo in cui si incontrano culture e religioni, e dove il disagio giovanile può avere molti volti: quello di un ragazzino italiano, cinese, siriano, rumeno, egiziano, bengalese e così via. Qui si incontra quella Roma multietnica che racconta storie di un’integrazione possibile. All’insegna della semplicità e di un bisogno che ci accomuna tutti: l’affetto.

“Il Borgo è una realtà nata nel 1948, nel dopoguerra, per rispondere a una necessità reale che c’era in quegli anni a Roma: il fenomeno degli sciuscià, dei ragazzi di strada”, ci racconta Don Stefano. Fu Papa Pio XII a chiedere ai salesiani di farsi carico di questo problema. Così venne trovata questa zona, un forte militare dismesso e per metà abbandonato. Venne rimesso in sesto e qualche mese dopo era già pronto per ospitare i primi duecento ragazzi che arrivarono qui come interni, ai quali si affiancavano almeno 6-700 minori che frequentavano il Borgo durante il giorno.

Con gli anni i salesiani hanno rafforzato la scelta di concentrarsi sul disagio giovanile. Si è costituita un’area che si chiama “Rimettere le ali”, un nome evocativo, che indica la volontà di dare una possibilità ai ragazzi che le ali le hanno un po’ rattrappite. Di quest’area fanno parte una Casa Famiglia per minori adolescenti (13-18 anni) e un movimento di famiglie affidatarie. “In dodici anni di Casa Famiglia – riflette Don Stefano – abbiamo avuto ragazzi provenienti da tutto il mondo. Come continente ci manca solo l’Oceania, il muro è strapieno di bandiere con le nazionalità dei ragazzi che sono passati di qui”.

I minori stranieri che frequentano il Borgo vengono dai percorsi più diversi. “In Casa Famiglia abbiamo un ragazzo originario del Mali che è arrivato in Italia a bordo di un barcone”, ricorda Don Stefano. “Ha passato i primi 7-8 mesi rinchiuso in un centro di accoglienza. Non sapeva una parola di italiano perché era stato solo con connazionali, e non aveva fatto alcun percorso formativo. Zero scolarizzazione nel suo Paese, ha 16 anni, dopo un anno stiamo ancora facendo alfabetizzazione. Ma qui ha trovato un posto sicuro, una base da cui ripartire”.

Poi c’è il Centro di accoglienza minori, che è forse la realtà più originale all’interno del Borgo. Al mattino si accolgono ragazzi dai 16 ai 20 anni che sono rimasti fuori dai percorsi formativi (i cosiddetti drop-out). “Da noi arrivano molti ragazzi per l’alfabetizzazione: si tratta di minori stranieri che arrivano in Italia senza parlare una parola di italiano. Poi ci sono ragazzi che non hanno la licenza media, tra cui moltissimi italiani, contrariamente a quanto si può pensare”, ci dice Don Stefano. “Oppure ci sono ragazzi che hanno la licenza media e vogliono imparare un mestiere, ma non riescono a inserirsi in una formazione professionale canonica. Per loro abbiamo corsi per parrucchieri, ristoratori, giardinieri. Una volta pronti, i ragazzi possono avvalersi dell’aiuto di uno sportello per la ricerca del lavoro”. Di pomeriggio, invece, il centro si trasforma per i ragazzi più piccoli. Si tratta soprattutto di stranieri di prima o seconda generazione, che hanno bisogno di un sostegno scolastico ma anche psico-educativo.

I numeri del Borgo sono notevoli. In questo momento nella formazione professionale sono inseriti oltre 300 ragazzi. Oltre 100 sono quelli seguiti al mattino al centro minori, 80 nella ricerca lavoro e 40 al pomeriggio. Attorno all’oratorio gravitano i ragazzi dei quartieri limitrofi. In tutto passano di qui un migliaio di ragazzi al giorno.

“Ogni giorno nel cortile c’è un miscuglio di 10-12 nazioni – commenta sorridendo Don Stefano. È un magma: bengalesi con egiziani, tunisini con rumeni, albanesi con nigeriani… una varietà sorprendente”. Insieme al miscuglio di razze, c’è un miscuglio di religioni. “Ci sono musulmani, anche se in pochissimi praticano. Ci sono molti ortodossi (dalla Romania e dai Paesi dell’Est), buddisti (i cinesi), qualche indù, alcuni testimoni di Geova…”.

È a questo punto che si entra in un capitolo chiave per il futuro della fede: la tolleranza e il rispetto reciproco. Ingredienti fondamentali soprattutto in questo periodo storico, dove la furia omicida dell’Isis vuole imporre tutt’altro modello.

“La nostra proposta è chiara – spiega Don Stefano – siamo una comunità religiosa di salesiani, alcuni anche sacerdoti. Però si tratta chiaramente di una proposta. In tutte le attività c’è una parte in cui parliamo di Dio e di Gesù Cristo, ma sempre con l’attenzione aperta a tutte le religioni. Si parte dalle esperienze che fanno loro – la morte, il rancore, l’odio… tutte cose che vivono in prima persona – per poi cercare di arrivare a qualche valore più profondo”.

Continua Don Stefano: “Tutti i pomeriggio all’oratorio facciamo un momento di riflessione. Alle 18 si fermano le attività per 5-10 minuti, diamo un pensiero che va bene per tutti e poi concludiamo con una preghiera, a cui partecipa solo chi vuole. Un giorno alla settimana diamo una buona notizia: andiamo a spulciare sui giornali e suoi siti per trovare una cosa bella da raccontare, preferibilmente poco conosciuta e che abbia come protagonista un ragazzo. Prendiamo temi che accomunino tutte le religioni: il perdono, la misericordia, l’attenzione verso chi non ha da mangiare…”.

Il motivo per cui il Borgo funziona, secondo Don Stefano, è la volontà di religiosi e laici di lavorare gomito a gomito, a favore dei ragazzi. Si contribuisce insieme a una cosa chiamata Comunità educativa pastorale, che si dota di un progetto comune a tutti e a cui ciascuno partecipa secondo le proprie specificità. Tra educatori, operatori, etc ci sono circa 150 figure educative.

“La storia – continua il direttore del Borgo – ci sta facendo vedere che questa è l’unica maniera in cui si può esprimere la Chiesa: un modo in cui si lavora insieme e si dà testimonianza di amore vicendevole. Abbiamo molte persone che si avvicinano – o si riavvicinano alla fede – perché vedono il lavoro con i poveri, un aspetto che tocca molto e su cui Papa Francesco ci sta dando una grossa mano. Sono persone che vedono una comunità formata da individui non perfetti, ma che cercano di volersi bene e dare una prospettiva ai ragazzi. L’obiettivo è dare quel calore, quell’ambiente di accoglienza che magari molti non hanno mai avuto in famiglia. Vedere persone che si vogliono bene dice più di tante cose che si possono insegnare”.

E si torna, inevitabilmente, al futuro della fede. “Penso che il Papa stia insistendo molto sul discorso dei poveri anche perché si tratta di un primo modo di avvicinarsi a Dio e alla fede”, riflette il religioso. “Qui arrivano persone che devono fare dei tirocini all’università, iniziano convinti di fare la loro esperienza da tirocinante, e poi riscoprono quella fede che avevano messo dentro un cassetto dopo la comunione. Così si riattivano dei percorsi. Il concetto del ‘fare’ – e del fare per i più poveri – attira un certo numero di persone che vogliono una Chiesa che non parli e basta, ma si ‘sporchi le mani’. La Chiesa che si sporca le mani… questa è l’unica parte della Chiesa che può arrivare lontano”.

Leggi la versione integrale (in inglese) dell’intervista: http://www.huffingtonpost.com/2015/06/25/future-of-faith-italy_n_7661716.html