Era il 1984 e Carlos aveva 13 anni, quando ha incontrato Suor Elsa, una figlia di Maria Ausiliatrice che lavorava nelle periferie di Luanda, la capitale dell’Angola. Suor Elsa lo ha invitato all’oratorio, e così è iniziato il percorso formativo e spirituale che gli avrebbe cambiato la vita. Oggi Carlos De Oliveira Soma vive a Roma, è sposato, ha due figli ed è operatore della Casa Famiglia del Borgo Ragazzi don Bosco.

 

Dopo le scuole sono arrivati cinque anni di servizio militare nel paese in guerra («ti vediamo sempre con i preti», gli dicevano i suoi commilitoni). Finalmente, nel ’92 la guerra ha avuto una pausa – breve purtroppo – e Carlos ha deciso di riprendere gli studi. È diventato tecnico di laboratorio, ma il lavoro in ospedale non gli piaceva: troppa corruzione e ingiustizie. Era entrato nel movimento salesiano («ho scoperto «una spiritualità che, quando ti prende, tu non cerchi altro») e la sera seguiva Padre Jorge Brandan nei suoi giri per aiutare i ragazzi di strada e dare loro da mangiare. È stato lui a chiedergli: perché non mettiamo su una casa famiglia»? E questa è stata la seconda svolta della sua vita, perché Carlos ha ricominciato a studiare, per diventare educatore sociale. È diventato cooperatore salesiano, ha lavorato col Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo), con l’ispettoria salesiana, è stato assistente del segretario nazionale del coordinamento della Pastorale Giovanile Nazionale dei Salesiani in Angola. «Lì ho scoperto questo mondo, che è diventato il mio mondo», racconta. «Ho messo in gioco le mie capacità e alla fine mi sono ritrovato a ricoprire il ruolo di educatore»

È arrivato in Italia nel 2002 a 32 anni, grazie ad una borsa di studio del VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), che gli ha permesso di studiare Scienze dell’Educazione alla Pontificia Università Salesiana. Si è trovato bene, anche perché è stato accolto da a una famiglia, che avrebbe dovuto solo alloggiarlo e invece lo ha tenuto con sé fino alla fine del suo corso di studi e alla quale è ancora fortemente legato: «considero quella coppia come i miei genitori: li chiamo mamma e papà», spiega.

 

Dopo la laurea ha fatto il tirocinio al Borgo. «Quando sono arrivato qui, ho pensato: “Questo è il mio mondo!”. Ho trovato nel Borgo il mio sogno: faccio l’educatore e la casa famiglia è diventata un pezzo importante della mia vita. Per me non è solo un lavoro, è un di più, è un pezzo del percorso di vita a cui aspiro, secondo l’impegno che ho preso, quando ho fatto la promessa da cooperatore salesiano.»

La decisione di restare è stata presa con la moglie, italiana, che Carlos ha conosciuto al VIS. «All’inizio avevo molte paure, perché qui non avevo legami mentre laggiù lasciavo parenti e amici. Ma c’era lei. Ormai ho due case: la casa-famiglia e quella in cui vivo con mia moglie e i miei figli. Anche qui si sono creati dei legami forti. Spesso la gente mi chiede: “Ma non ti manca il tuo Paese, non ti mancano i tuoi parenti?”. Io rispondo che certo, naturalmente mi mancano, ma ho trovato anche in Italia i miei parenti, la mia vita e la mia vocazione: quello che ho iniziato là, l’ho ripreso e continuato qui.»

 

Con i ragazzi è severo, ma anche buono ed è convinto di avere una grande capacità di ascolto e di essere buono: «forse è per questo che fin da piccolo i miei 7 fratelli mi consideravano il cocco di mamma. Con i ragazzi cerco di non essere invadente, ma so come fare breccia ed entrare nel loro mondo, anche se in alcuni casi è più difficile.»

Molti dei ragazzi della casa famiglia sono stranieri, altri sono italiani. «Quelli italiani sono più capricciosi, hanno una famiglia e questo a volte porta ulteriori problemi. Gli stranieri più facilmente mi accolgono come uno di loro. Ma nessuno ti dà mai la soddisfazione di dirti grazie: pensano che tutto è dovuto. Sanno che, se dico no, è no e a volte, se vogliono qualcosa, mi aggirano e si rivolgono ad altri operatori. Ma i rapporti sono positivi: quando sto con loro sono davvero lì per loro.»

 

Carlos dunque è entusiasta del lavoro che fa, anche se è faticoso e costringe a rimettersi in discussione continuamente. «Ci sono fallimenti. Per alcuni ragazzi dobbiamo ammettere che non abbiamo risposte, altri riescono a nasconderci le loro vite e a impedirci di entrare, altri ancora alla fine preferiscono la via più facile, illusoria… Io non mi risparmio e se mi accorgo che uno sta male, insisto. Per fortuna lavoriamo in équipe e dove non arriva uno arriva l’altro. Sono ormai otto anni che lavoriamo insieme e non posso che dire grazie a tutti.»