Riflessione a margine di una trasmissione delle “Iene” che trasforma la denuncia in qualunquismo.
Di Paola Springhetti
Recentemente, la trasmissione “Le Iene” ha mandato in onda un servizio sullo spaccio e la prostituzione minorile alla stazione Termini. Un problema conosciuto e drammatico, che non ha ancora trovato una soluzione, e dunque è importante che venga rappresentato anche in televisione. Il problema è che il servizio verso la fine è scivolato sempre più inesorabilmente verso un attacco indiscriminato alle case famiglie, complice il fatto di non poter – per evitare complicazioni legali – indicare il nome della struttura che accoglie alcuni di questi ragazzi, ma soprattutto complice il metodo stesso che le Iene hanno adottato per le loro “inchieste”. Su un tema a volte avvicinano di sorpresa le persone che loro identificano come responsabili – in questo caso gli operatori della struttura – e pretendono risposte brevi ed efficaci a domande complicate, senza lasciare il tempo di pensare o di prepararsi. Vere e proprie aggressioni, che spingono gli intervistati a chiudersi in difesa, facendo così la figura dei reticenti. Come è successo, puntualmente, anche questa volta. Non a caso si chiamano Iene.
A parte il fatto che nel servizio si fa una certa confusione tra “strutture di accoglienza” e case famiglie, il messaggio complessivo è che queste ultime sono macchine mangiasoldi che ricevono ben 70 euro di soldi pubblici al giorno per ogni ragazzo e che li sprecano non si sa bene come, ma comunque senza rispondere alle esigenze e ai diritti dei ragazzi stessi, perché non forniscono né istruzione né avviamento al lavoro.
Sparare sulle case famiglia, del resto, sembra essere diventato uno sport nazionale, in cui si esercitano non solo le trasmissioni televisive in cerca di audience, ma anche i social network, come dimostra il post che pubblichiamo in questa pagina. Un post che gira su Facebook da un bel po’ di tempo e che, oltre ai toni demagogici (grazie ai quali gli utenti sono spinti a condividerlo), contiene alcune bugie.
Non è vero che si tolgono i figli alle famiglie bisognose, è vero invece che si accolgono minori che una famiglia non ce l’hanno, oppure ne hanno una ma non in condizione di prendersi cura di loro. Non è vero che costano allo Stato 200 euro al giorno: la Regione in cui mediamente l’ente pubblico versa di più è il Piemonte (105 euro al giorno per ragazzo). In coda alla classifica c’è Roma, che non arriva a 70 euro (69,75). E se si dessero 50 euro al giorno alle famiglie in questione non si risolverebbe nessun problema, visto che in genere non si tratta di problemi economici. Però, raccomanda il post, “condividi se sei d’accordo” e la gente condivide. Anche le Iene, a loro modo lo hanno fatto.
In questo sport nazionale che è il dare addosso alle case famiglie c’è qualche cosa che non si dice mai, o non abbastanza. Per esempio, che quei 70 euro per i quali le Iene si scandalizzano, non bastano, come dimostra lo studio fatto nel 2015 da Casa Al Plurale.
Sempre Casa al plurale, nel gennaio scorso ha pubblicato un documento in dieci punti, per rispondere ad un’altra inchiesta giornalistica che proponeva conclusioni fuorvianti. Si intitola “10 cose che non si dicono mai sulle case famiglia” e, se le Iene avessero investito un po’ di tempo per leggerle, forse avrebbero potuto cogliere altri aspetti del problema. Ad esempio, al punto 6 avrebbero potuto leggere che «Le case famiglie si ritrovano ad affrontare i problemi di un sistema sociale, sanitario e giudiziario (tribunale dei minori) in grande sofferenza, nonostante sia presente e previsto per legge il lavoro di sostegno al minore attraverso l’inserimento in un clima affettivo e professionalmente competente (assistenti sociali, educatori professionali, psicologi e operatori socio sanitari)». E, al punto 7, che «Le case famiglie stanno da tempo comunicando, a tutti i livelli, che il loro operato nella salvaguardia del minore va sostenuto e rinforzato, perché non riescono da sole a fare da cuscinetto tra un sistema disgregato e disgregante dal punto di vista istituzionale e familiare e le esigenze che ha un minore di crescere in un ambiente sano».
I media devono svolgere il loro ruolo che è quello di denunciare abusi, scorrettezze, violazioni dei diritti. Ma quando l’accusa è indiscriminata, genera qualunquismo e intralcia il lavoro, serio e delicato, di chi per questi ragazzi spende la propria vita. E ha la soddisfazione di vedere che ce la fanno ei sentirli dire: «sono fiero di me. Ho avuto la fortuna di incontrare le persone giuste, ma mi sono anche impegnato. Gli altri si fidano di me» (parole di Ydem, che ha fatto parte della casa famiglia del Borgo Ragazzi Don Bosco).