Speranza e Rinascita. Parla chi il Borgo lo ha vissuto davvero.

 a cura di Giulia Felici – 9 dicembre 2013

Lo scorso mercoledì 4 dicembre, il Borgo Ragazzi Don Bosco ha festeggiato i suoi 65 anni di vita aprendo un ulteriore dialogo e dibattito con le istituzioni, ma soprattutto dando voce a storie vere di ragazzi protagonisti.

La Sala del Carroccio, in Campidoglio, si è riempita, oltre a giornalisti, anche di rappresentanti delle varie associazioni, semplici interessati e ragazzi del Borgo, rendendo così l’appuntamento un vero e proprio momento di incontro e conversazione tra soggetti diversi e interconnessi della nostra società. Uno strano mix che rappresenta pienamente ciò che il Borgo è e cosa fa.

Nato ufficialmente nel 1948 per accogliere gli sciuscià sulle orme degli insegnamento di Don Bosco, è oggi un’istituzione della città e del territorio che mantiene quell’identità di comunità educativa pastorale di salesiani e laici al servizio dei giovani e delle famiglie.

Si trova nel V Municipio ma opera su tutto il territorio di Roma e provincia, dando particolare attenzione a quelli che il Ministero degli Interni ha chiamato “territori a rischio”: quelli caratterizzati dalla microcriminalità, dalle dipendenze, da disagi culturali ed economici. Qui il Borgo offre una famiglia accogliente, un posto in cui vivere e fare amicizia, una scuola, un laboratorio dove imparare il mestiere.

All’epoca, il Borgo, rappresentava un reale esempio di ricostruzione nell’Italia post-bellica. Oggi possiamo ancora parlare di “ricostruzione”, non più contingente come quella degli anni ’50 ma sociale e psicologica. Al Borgo non arrivano più solo ragazzi con disagi materiali, ma anche chi ha bisogno di ritrovare se stesso e di reinserirsi nella società. Il compito, oggi, è quello di ridare speranza ad una generazione che non trova il giusto posto nell’intricato e impaziente mondo contemporaneo.

La giornalista del Tg2, Daniela De Robert ha aperto la conferenza con una breve introduzione storica e dando subito la parola a Don Stefano Aspettati. Il direttore del Borgo lo ha presentato come “qualcosa che è cambiato ma forse poi nemmeno tanto”. Le esigenze e i bisogni sono diversi da quelli degli sciuscià ma “siamo ancora una grande famiglia”.

Ai cambiamenti storici e sociali è seguito il progressivo adeguamento dell’organizzazione interna, si sono create tre grandi “aree” (termine usato non a caso per la sua valenza poco restrittiva): l’oratorio-Centro Giovanile, un ambiente di accoglienza e formazione che offre la possibilità di sperimentare la vita di gruppo, la partecipazione e l’assunzione di responsabilità; il CFP (centro di formazione professionale) che ha lo scopo di promuovere la crescita formativa e lavorativa dei giovani aiutandoli anche nell’inserimento nel mondo del lavoro attraverso stage; “rimettere le ali” un’area di emarginazione e disagio che accoglie giovani di età compresa tra i 14 e i 20 anni e intraprende con loro progetti educativi personalizzati e flessibili.

Quest’ultimo si articola in diverse proposte educative: l’Unità di accoglienza di tipo familiare, oggi l’anello di congiunzione tra famiglie e istituzioni nelle pratiche di affidamento. Lo sportello di ascolto psicopedagogico molto usato dai ragazzi ma anche dalle famiglie. Il centro di accoglienza polifunzionale “che accoglie attualmente circa 170 ragazzi – spiega don Stefano – che hanno bisogno di una formazione personalizzata perché sono rimasti fuori dai percorsi formativi normali”. Si tratta di ragazzi che “ vengono dalla devianza già conclamata e che hanno magari avuto problemi con la giustizia”.

La De Robert ha poi dato la parola ai più giovani: tre ragazzi che “nell’oratorio hanno trovato nutrimento”. Tre semplici ragazzi, di quelli che incontri ogni giorno alla fermata dell’autobus senza chiederti che storia hanno alle spalle. Sono come tutti gli altri: scarpette da ginnastica, taglio di capelli attento alla tendenza del momento e cuffie alle orecchie che li isolano per un po’ da tutto il resto. Tre ragazzi timidi ed emozionati davanti ad un pubblico lì solo per loro, forse non proprio come tutti gli altri.

Shari ha 22 anni, è romana e si è avvicinata al Borgo per avere delle ripetizioni dopo un paio di bocciature a scuola. La sua storia è stata fortunatamente intercettata prima che potesse degenerare in situazioni molto difficili. “Avevo compagnie di ragazzi di strada, c’era chi aveva avuto problemi con la giustizia e chi era finito al cimitero. La prima sensazione che ho provato davanti al gruppo formativo è stata quella di essere con persone che mi ascoltavano. Grazie a loro ho capito che dovevo dare un senso alla mia vita. […] Ho scoperto di avere delle capacità che non pensavo di avere e la bellezza di mettersi al servizio degli altri. Ho trovato una nuova felicità, diversa da quella che avevo prima. L’ho conosciuta al Borgo, la invidiavo agli altri così ho voluto imparare ad essere felice in quel modo”.

La storia di Luca è un po’ diversa. Un venticinquenne romano che da studente discolo si è trasformato in un professore innamorato del proprio mestiere. “Ho intrapreso il corso formativo professionale per operatore meccanico perché volevo lasciare gli studi prima possibile e iniziare a lavorare. Dopo due anni però ho deciso di finire le superiori alla scuola statale, il Borgo ti da anche questa possibilità. Conseguito il diploma ho fatto un anno di servizio civile alla comunità Don Bosco, dopo di che mi è stato proposto di insegnare lì al Borgo. Ho accettato subito, volevo dimostrare ai ragazzi che ce la si può fare. […] Oggi mi dimentico di andare a prendere la busta paga, faccio l’una di notte a preparare le slides per i ragazzi, faccio quello che mi piace per il piacere di farlo”.

Poi c’è Rahat, la più giovane di quattro sorelle bengalesi che, catapultate in Italia, si sono scoperte sole. Al Borgo hanno ritrovato una famiglia e un futuro. “l’Unità di accoglienza creò un progetto fatto a posta per noi, un progetto di semi-autonomia dove i ragazzi sono seguiti anche dopo i 18 anni. Questo ci consentì di prendere un appartamento nostro senza doverci dividere nelle case famiglia sempre seguite dagli assistenti sociali. Grazie a loro abbiamo costruito dei legami importanti”. La voce di Rahat si spezza, l’emozione le stringe la gola e le fa abbassare lo sguardo facendo intervenire la De Robert: “cos’è per te il Borgo Don Bosco?”, “per me è una casa di… Una casa!”.

Renato, infine, ha 25 anni ed è stato allenatore di minibasket per la Polisportiva Borgo don Bosco. Ad oggi, oltre ad animare un gruppo di adolescenti dell’oratorio, è coordinatore nazionale del Movimento Giovanile Salesiano. Le sue esperienze nel Borgo, diverse da quelle citate, gli fanno parlare, oltre che di “casa che accoglie”, anche di “palestra di vita” e “laboratorio di talenti”. “Al Borgo ho scoperto la bellezza di essere al servizio degli altri e mi sono innamorato dei diritti umani”. Laureato in Relazioni Internazionali e attualmente tirocinante nell’associazione di Medici Senza Frontiere, si permette di dire senza indugi che il tempo che ha passato e che passa nell’oratorio ha decisamente influenzato la sua persona, le sue scelte professionali e le sue prospettive future di vita.

Arriva poi il momento di parlare del legame con il territorio e della collaborazione, sempre più necessaria, con altri soggetti portatori d’interesse. Don Stefano si fa portavoce di un’esigenza impellente oggi più che mai: una maggiore comunicazione, apertura e interconnessione con gli enti.
Arriva il momento di dare la parola alle istituzioni: il vicesindaco di Roma Luigi Nieri, l’assessore regionale alle Politiche Sociali e allo Sport Rita Visini, il presidente del V Municipio Gianmarco Palmieri, il direttore dell’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Raziali) Marco De Giorgi.

Interventi facilmente traducibili nella commozione davanti a tali storie, nel riconoscimento del valore che caratterizza il Borgo, nel riconoscerlo come risorsa dell’intera comunità da “studiare e sostenere”. L’assessore gli attribuisce anche il compito di “riumanizzare” la società, “queste realtà sono un aiuto alle istituzioni, una loro prosecuzione, una salvezza per molti ragazzi. Il sociale deve diventare un investimento per la società”. De Giorgi poi, torna su due fattori fondamentali del Borgo e di tutte le realtà simili: la scuola come prevenzione e il lavoro come principale strumento di inserimento nel tessuto sociale. Due fattori talmente fondamentali nella vita di un individuo che possono trasformare positivamente o negativamente quella stessa vita, la comunità di riferimento e la società più in generale. “Non si vada più avanti a progetti ma si stabilisca una vera Politica di Servizio”: è questo il monito della Visini, rivolto a tutte le amministrazioni territoriali, compresa quindi anche la sua.

Scuola e Lavoro, ma anche Fiducia, Felicità, Casa, Diritti umani, Talenti e Speranza. Sono queste le parole chiave che riassumono la vita del Borgo raccontata dai ragazzi, diretti interessati. Raccontata da chi delle promesse e dei moniti non se ne fa di nulla, che combatte ogni giorno per costruirsi un futuro che nessuno gli ha facilitato. Parole importanti e piene di significato che riescono a farti dire: “ho tutta la vita davanti per fare tante cose!”, come ha concluso Rahat nel suo intervento.

Il Borgo ha raggiunto l’obiettivo che si era preposto 65 anni fa.

tratto da: abitarearoma.net http://www.abitarearoma.net/i-65-anni-del-borgo-don-bosco-i-nostri-giovani-il-domani/