Sono passati 13 anni, nei quali abbiamo accompagnato più di 50 ragazzi. Molti di loro, in questi anni, ci hanno dato dei rimandi positivi che ci fanno ben sperare: “Il clima è realmente familiare”; “ la Casa Famiglia è un luogo di cura e di ascolto”; “gli educatori, pur svolgendo un incarico professionale, ci vogliono bene in modo genuino e spontaneo”.
Potremmo ritenerci soddisfatti del nostro lavoro a partire da queste semplici considerazioni positive, che proprio i ragazzi ci fanno. Eppure ogni volta che un ragazzo si sente amato da noi, sappiamo che la nostra finalità non è solo quella dell’accoglienza percepita o dell’affetto dato e ricevuto. Abbiamo sempre aspirato a qualcosa in più nel nostro agire educativo. Nello spirito di Don Bosco vogliamo certamente che i ragazzi capiscano di essere amati e a quei ragazzi più critici o provocatori abbiamo anche detto: «Siamo pagati per assistervi, per non farvi mancare nulla e per mandarvi a scuola o al lavoro, ma non siamo pagati per volervi bene… questo lo facciamo gratis!». Il nostro bene, però, lo abbiamo sempre voluto pesare nella concretezza del nostro agire e nel progetto di vita che pensiamo e sogniamo per ognuno dei ragazzi accolti.
È per questo che in questi anni abbiamo sempre cercato di offrire speranza a quei ragazzi che, seppur giovanissimi, l’avevano persa; fiducia a chi aveva ricevuto molte svalutazioni e delusioni soprattutto in ambiente familiare; spensieratezza a chi fin da piccolo è stato responsabilizzato eccessivamente per fare l’adulto; coraggio a chi si sentiva già predestinato ad una vita di borgata sulle orme dei propri genitori o a chi si scoraggiava schiacciato dal peso di una integrazione difficile; accettazione del loro passato per farli diventare costruttori di un proprio futuro libero.
L’obiettivo non è mai stato quello di “salvare” i ragazzi dal proprio sistema familiare e/o sociale di appartenenza. Anche nei casi in cui questo poteva risultare pregiudizievole o dannoso, abbiamo sempre stimolato i ragazzi al mantenimento e alla trasformazione positiva delle proprie relazioni affettive.
Allo stesso tempo, però, li abbiamo invogliati nella ricerca di nuove relazioni significative. Prima dell’apertura della Casa Famiglia, ci chiedevamo se il portone d’ingresso della Comunità doveva affacciarsi esternamente sulla strada o internamente sull’Oratorio del Borgo Ragazzi Don Bosco. La scelta, provvidenziale ed efficace, di essere una casa aperta all’interno del Borgo Ragazzi Don Bosco ha fatto la differenza per rispondere ai bisogni relazionali dei nostri ragazzi. Infatti, in alcuni casi, volontari, famiglie, salesiani, altri operatori del Borgo Ragazzi Don Bosco hanno creato relazioni importanti e duraturi nel tempo, diventando figure significative per i nostri ragazzi.
Con l’apertura della Casa Famiglia e con l’arrivo dei primi ragazzi è nata subito l’esigenza di trovare e formare famiglie affidatarie e solidali, che potessero essere una risorsa per i nostri ragazzi. Oggi, il Movimento Famiglie Affidatarie e Solidali, nato da questa “necessità” svolge un ruolo prezioso per tutto il territorio e per tanti minori in difficoltà. Anche alcuni dei nostri ragazzi, sia italiani che stranieri, hanno sperimentato forme di affidamento familiare e molti altri hanno avuto la possibilità di essere accompagnati nel loro percorso da una famiglia di riferimento.
I primi ragazzi accolti, giunti a ridosso della maggiore età, ci hanno portato ad affrontare molte sfide. La prima, quella più difficile: cosa offrire a quei ragazzi che non potevano tornare a casa o per i quali l’affido non era la soluzione idonea? La risposta è nata con l’avvio del progetto della Semi-autonomia: prima un appartamento per i ragazzi, a seguire quello per le ragazze, poi soluzioni più personalizzate con affitti in stanze con studenti e giovani lavoratori o da alcune famiglie o volontari di fiducia. Con la nascita della Semi-autonomia il nostro agire educativo, ancora di più, è stato orientato verso la responsabilizzazione dei ragazzi e il loro sviluppo di competenze e autonomia.
Alcune crisi hanno giocato un ruolo fondamentale nella crescita dei ragazzi, degli educatori e di tutta la comunità. Soprattutto le crisi dolorose hanno portato a strade nuove e a cambiamenti importanti: come nella storia di S. uno dei primi 4 ragazzi accolti nel settembre 2001. Dopo alcuni anni in Casa Famiglia è voluto tornare alla sua casa e nel suo ambiente, dove non aveva mai vissuto a pieno la sua infanzia e adolescenza e forse proprio questa è stata la scelta che lo ha portato, di lì a poco, a morire in solitudine, senza qualcuno che avesse saputo o potuto prendersi cura completamente di lui. Inizialmente la sua morte è stata vissuta da noi come un fallimento, ma in seguito come uno stimolo per aiutare altri ragazzi che come lui, dopo un periodo in Casa Famiglia, erano orientati a tornare a casa. Siamo riusciti a progettare nuove forme di tutela e di accompagnamento educativo proprio nella fase delicata, per i ragazzi e per le loro famiglie, del rientro a casa.
Proprio in questo periodo, anche M. ci ha lasciato. Aveva vissuto per 2 anni in Casa Famiglia e poi è stato 3 anni in affidamento familiare. Anche in questa situazione di dolore, abbiamo avuto una certezza: che tutto il lavoro educativo che facciamo con questi ragazzi comunque ha un senso. Ha senso la libertà e i valori che i ragazzi scoprono e le relazioni che costruiscono. A prescindere dalla durata della vita e dal suo finale, ha senso accogliere e incontrarsi.
Le morti di S. e M. ci insegnano anche che la Casa Famiglia non è onnipotente: offriamo il massimo ai ragazzi che accogliamo, li possiamo indirizzare nella giusta direzione e li accompagniamo in una fase cruciale della loro esistenza, ma l’esperienza in Casa Famiglia rimane per sempre un piccolo pezzo di percorso nella vita di questi ragazzi. Dobbiamo quindi saper accettare le scelte di vita che faranno indipendentemente da noi, i loro sbagli e tutto ciò che a noi può sembrare una forma di non rispetto verso quanto “facciamo per loro”. Uno dei ragazzi che ha vissuto molti anni con noi, attualmente vive in una situazione personale molto difficile e ci ha scritto queste belle parole: «Sono passati ormai anni, da quando sono uscito dalla Casa Famiglia, ed ancora oggi me ne pento. Per orgoglio non ho mai ammesso quanto vi ho pensato, quanto avrei voluto che in certe situazioni ci fosse stati voi, quanto avrei voluto oltrepassare il cancello della Casa Famiglia e sedermi a capotavola, di quella tavola così lunga e familiare, mangiando, ridendo e parlano, ma soprattutto mi manca quel “come stai?”, “come è andata?” che oramai sono anni che non me lo sento più dire».
Non finiremo mai di stupirci di quanto viviamo insieme a loro. Ogni ragazzo che è entrato in Casa Famiglia ha portato con sé un mondo nuovo e ogni volta tutti noi siamo cambiati e cresciuti insieme a lui.
di Luciano Balducci
Coordinatore della casa Famiglia Borgo Don Bosco
Testo tratto da: “ACCOGLIERE PER PREVENIRE . Lo sviluppo di servizi promozionali nel disagio minorile”, a cura di Roberta Martufi e Roberta Pontri, EcEdizioni, gennaio 2012