Il Borgo Ragazzi don Bosco, organizza per il giorno 13 ottobre alle ore 10.30, all’interno della Settimana della Famiglia, in incontro dal titolo “Famiglia feconda” per sottolineare la necessità e l’importanza di sostenere un minore, permettendogli di vivere l’affetto e la cura di una famiglia, in attesa che la propria, quella di origine, superi le difficoltà contingenti, ma anche di offrire dei validi riferimenti familiari a tutti quei ragazzi maggiorenni in uscita da una casa famiglia e che non hanno la possibilità di tornare all’interno della propria. Tra questi, molti sono i minori stranieri non accompagnati (msna).
Quando si fa riferimento agli msna si pensa subito alle problematiche legate all’accoglienza, alla tutela, ai documenti. Tutte cose essenziali che determinano non solo la possibilità o meno di inclusione ma anche il benessere psico-fisico dei ragazzi sottoposti a numerosi stress, tra i quali le lunghe attese per la regolarizzazione.
Ma non dobbiamo dimenticarci che i minori stranieri non accompagnati sono soprattutto dei ragazzi. Amano incontrare altri ragazzi e ragazze, hanno bisogno di mantenere i propri contatti con la propria famiglia di origine, alla quale sono strettamente legati, anche se a distanza. Hanno bisogno di andare a scuola, di imparare, di utilizzare il pc e il cellulare, di giocare a pallone.
Troppo spesso, tutto questo viene sottovalutato e i ragazzi si ritrovano parcheggiati in strutture per lo più soli e tra connazionali; è vero che qui trovano vitto, alloggio e servizio sociale ma trovano anche poco impegno per una fattiva inclusione.
Quando il Papa e il Rettor Maggiore dei salesiani hanno lanciato un appello per l’accoglienza dei richiedenti asilo, al Borgo Ragazzi don Bosco abbiamo deciso principalmente di offrire loro opportunità formative e di sperimentare, insieme a loro, possibili percorsi di inclusione; contemporaneamente, abbiamo avviato un progetto di intervento su strada insieme ad altre associazioni, per poter intercettare quei minori che hanno paura di entrare in comunità o che ne sono scappati.
Ci siamo dati la regola di non accogliere nella nostra casa famiglia più di due ragazzi della stessa nazionalità, ovvero di accogliere msna insieme a ragazzi italiani e stranieri di seconda generazione. Abbiamo cercato di offrire, a ciascun ragazzo accolto, una famiglia di riferimento con l’obiettivo di favorire la nascita di un legame anche per quando dovranno andare a vivere da soli nel territorio. Un legame che aiuta sia chi accoglie che chi ha accolto: colui che accoglie scopre che non c’è da aver paura di questi ragazzi e chi è accolto scopre che è una persona particolare e speciale e non uno tra tanti.
Questi ragazzi si portano dentro dei grossi traumi legati al distacco dalla propria famiglia, dalla situazione vissuta in patria, al viaggio con tutte le sue peripezie e i pericoli estremi, superati magari insieme a tanti altri che non ce l’hanno fatta. Per questo osserviamo che, specie nei primi tempi, hanno bisogno di fermarsi. Di recuperare alcuni aspetti tipici della loro giovane età: di perdere tempo, di giocare, di vestirsi bene, di vedere la TV o di giocare alla play. A noi sembra strano, pare che gli stiamo trasmettendo il peggio della nostra società. In parte forse è così, ma ci rendiamo anche conto che, pur essendo stati costretti dalla vita a crescere in fretta, sono sempre dei ragazzi che hanno diritto a restare tali e a farsi anche accudire, rimproverare, incoraggiare, ecc.
Abbiamo anche scelto di offrire loro la possibilità di frequentare corsi brevi di avviamento al lavoro; infatti, questi ragazzi non si inseriscono nei percorsi scolastici un po’ per l’età, un po’ per gli anni persi; ma soprattutto perché sono consapevoli del fatto che a 18 anni dovranno camminare con le loro gambe: dovranno imparare non solo a sostenersi ma dovranno anche cominciare a mandare i soldi a casa. Tra l’altro, l’organizzazione dei corsi (pizzaiolo – gettonatissimo tra i ragazzi egiziani, pasticcere, panificatore, addetto sala/bar, giardinaggio e orticultura) sono stati resi possibili grazie ad una gara di solidarietà dove in tanti si sono messi a disposizione (personalmente o economicamente) per realizzare i progetti.
Quello che osserviamo è che i ragazzi hanno bisogno di punti di riferimento in cui essere riconosciuti e chiamati per nome. Spesso tornano, dopo essere stati per un periodo da noi o dopo aver trovato lavoro o dopo averlo nuovamente perso. Sanno che qualcuno sarà disposto ad ascoltarli.
Negli anni ci siamo resi conto che cambia repentinamente la geografia degli arrivi: albanesi, rumeni, afghani, bengalesi, egiziani, di nuovo albanesi e ora eritrei e di nuovo egiziani. Tanto per dire i maggiori flussi di ragazzi della stessa provenienza geografica. Ci siamo resi conto che spesso siamo spettatori impotenti di questi flussi governati dall’alto da chi sfrutta la povertà degli altri a proprio vantaggio. D’altra parte quando incontri un volto, un nome, una storia cambia tutto. Per questo crediamo all’accoglienza fatta nelle piccole comunità e non nei grandi centri che riproducono ghetti e campi profughi come quelli da dove sono partiti. Crediamo che la cosa migliore è offrire reali opportunità di fare qualcosa con loro, di farli sentire utili e importanti. Occorre continuamente ridefinirsi e continuare la sfida di mettere insieme ragazzi italiani e stranieri (nel nostro caso anche rom).
Quando a Tor Sapienza ci fu una rivolta da parte delle famiglie povere italiane delle case popolari che si sentivano invase dal campo rom ma anche dal centro per rifugiati minorenni aperto davanti casa, la situazione era ingestibile: ognuno dava all’altro la colpa dei problemi del quartiere. Gli stessi ragazzi, insieme, durante il giorno, frequentavano il Borgo don Bosco e sperimentavano la convivenza non solo pacifica ma fatta di relazioni umane che non rendevano evidenti le differenze ma piuttosto i bisogni comuni di imparare, lavorare, divertirsi.
Un po’ di tempo fa, è passato da noi un giovane albanese che aveva fatto un corso di sala bar: “Sono venuto a ringraziarvi. Per primi mi avete offerto una possibilità. Poi ho capito che potevo fare questo lavoro e ho continuato prima a lavorare in un albergo e poi di nuovo a fare un altro corso. Ora lavoro e sto bene e vorrei dire agli altri ragazzi, che sono qui, di essere determinati come avete insegnato a me. Quando non trovavo lavoro, quando ad ogni colloquio non mi prendevano, mi dicevate di non fermarmi, di non arrendermi. Al decimo colloquio mi hanno preso a lavorare. Ho capito questa cosa e voglio dirla anche agli altri”.
Ecco di cosa c’è bisogno: possiamo ripensare le nostre attività educative ordinarie (oratori, scuole, sport, formazione professionale) aprendole ai ragazzi stranieri in ogni contesto e in ogni territorio, adeguandole in modo flessibile alle loro possibilità piuttosto che creare solamente strutture dedicate ai minori stranieri non accompagnati e solo a loro