Per chi se la fosse persa, proponiamo l’intervista fatta a don Domenica Ricca, salesiano e cappellano nel carcere Aporti di Torino, pubblicata su Avvenire del 16 gennaio, a cura di Marina Lomunno.

«Dobbiamo concentrarci sulle modalità con cui stiamo con i ragazzi: lo slogan “non conta la quantità ma la qualità”, con cui noi adulti ci siamo scaricati la coscienza sul poco tempo a disposizione per stare coi figli, non funziona più». Lo spiega don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile torinese Aporti. A cui abbiamo chiesto di riflettere sugli ultimi gravi episodi di cronaca che hanno come protagonisti i preadolescenti.

Don Ricca, l’abbassamento dell’età in cui i minori commettono reati e atti di bullismo si sta abbassando anche a 10 e 11 anni. Come cappellano di un carcere minorile come legge questi fatti?

Passato il comprensibile sgomento, come educatori non dobbiamo farci prendere dal panico ma riflettere su una cosa che non è più ovvia in un’epoca in cui tutti ci aspettiamo risultati immediati: l’educazione ha bisogno di tempi lunghi e non dobbiamo smettere di seminare. Detto questo, dobbiamo concentrarci sulle modalità con cui stiamo con i ragazzi: lo slogan “non conta la quantità ma la qualità”, con cui noi adulti ci siamo riempiti la bocca per scaricarci la coscienza sul poco tempo che abbiamo a disposizione per stare con i nostri figli, non funziona più. I ragazzini non riescono a valutare quanto sia più importante il benessere che viene assicurato loro da genitori assenti ma che percepiscono un buon stipendio: i ragazzi hanno bisogno di quotidianità educativa, di piccoli gesti di vicinanza non di prediche del tipo “non capisci che mi ammazzo di lavoro per comprarti questo o quello?” . Hanno bisogno di essere seguiti sui loro piccoli impegni quotidiani, sui compiti, sullo studio. Se i genitori non ci sono mai i ragazzi come possono essere “marcati a vista” sui loro piccoli doveri? Come possono sentire una presenza educativa che li sostenga e aiuti a non disperdersi?

Lei è salesiano e don Bosco diceva che in ogni ragazzo, anche il più discolo, c’è un punto di bene su cui far leva: l’emergenza educativa è una delle priorità del nostro Paese. Su che cosa si deve far leva?

Innanzi tutto – e mi appello anche ai mass media – abbassiamo i toni, smettiamo di utilizzare parole abusate come “baby gang” che evocano disprezzo nei confronti di alcune categorie di giovani e spingono all’emulazione. I ragazzi non leggono più i giornali o non guardano la tv ma questi messaggi arrivano sugli smartphone di cui tutti loro sono dotati e con cui comunicano. Inoltre il nostro mondo adulto è intriso di violenza. Sono violenti i toni della politica dove quotidianamente ci si insulta, si lanciano anatemi contro gli immigrati, spesso le riunioni in Parlamento finiscono in rissa. Questo clima rancoroso i nostri giovani lo respirano e lo emulano. Anche la parola “emergenza educativa” ormai è abusata: cosa abbiamo fatto per affrontarla quando l’alleanza famiglia-scuola, priorità assoluta iniziare prendere di petto il problema, si sta rompendo definitivamente? Di fronte a fatti di bullismo che coinvolgono pre-adolescenti viene da pensare che la famiglia e la scuola siano assenti: chiediamoci che cosa non ha funzionato nel nostro Paese se in Europa ha il primato dei neet, i giovani dai 15 ai 24 anni che non lavorano né studiano che, secondo le ultime statistiche sono 1 su 5, oltre 2 milioni, pari al 16% della popolazione giovanile…

Da cosa ricominciare allora?

In questi giorni in carcere mi capita di parlare con i più giovani di questi fatti perché alcuni di loro sono “dentro” per episodi simili. E quando li fai riflettere sulla loro vita, sui gesti che hanno compiuto, quando cerchi di stargli vicino prima o poi ti dicono: «Don Mecu, sono stato uno stupido». Ecco perché dico che i ragazzi – tutti, quelli che incontro in carcere ma anche quelli fuori – hanno bisogno di “quotidianità educativa”, hanno bisogno di genitori, educatori, insegnanti che li ascoltino, li mettano alla prova e che non abbiano fretta di ottenere dei risultati. Per i nostri ragazzi conta di più un piccolo gesto quotidiano di vicinanza che un’omelia.

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