Il 18 settembre dello scorso anno è iniziata la mia esperienza come tirocinante psicoterapeuta nel Borgo Ragazzi Don Bosco.
L’iter ha previsto l’iniziale partecipazione a 4 incontri formativi. C’erano tante persone, altri aspiranti tirocinanti e volontari, gli operatori del Borgo, i responsabili dei diversi servizi. Mi sembrava tutto un po’ strano ed ero emozionata, come sempre quando inizio un nuovo percorso. Da subito però ho sentito forte una particolare sensazione, percepivo di sentirmi in un contesto molto familiare. Mi è servito un po’ di tempo per elaborare, ma poi ho capito che quella sensazione dipendeva dal fatto che il Borgo si presenta come un luogo molto diverso da tutto quello che ha intorno.
È come un piccolo villaggio, entrando nel quale, sembra di essere lontanissimi dal caos di Roma. Tutto ha un ordine, ma anche la necessaria flessibilità, le persone –tante e diverse, per età, etnia, professionalità– si conoscono e si salutano o almeno si sorridono. Eccolo il senso di familiarità! Era proprio nei tanti piccoli gesti che immediatamente, varcato il cancello, è possibile percepire, prima a livello sensoriale e poi cognitivo.
Le prime conoscenze hanno confermato queste sensazioni, come anche la formazione, terminata la quale sono stata inserita, per le sue peculiarità, nel Centro SOS AscoltoGiovani.
Un passo dopo l’altro ho conosciuto e mi sono lasciata conoscere dall’equipe di professionisti (psicologi, psicoterapeuti, consellors, assistenti sociali, pedagogisti), che dedicano la propria competenza a coloro che si rivolgono al Centro. E finalmente ho iniziato a partecipare ai colloqui.
Per chi sceglie come professione di occuparsi delle umane difficoltà, è un momento topico, nel quale in un colpo solo realizzi l’importanza del ruolo e tutte le sue difficoltà. Gli esami universitari, le teorie, gli autori studiati e “sudati”…, diventa tutto piccolo piccolo –quasi insignificante- quando ti trovi faccia a faccia con le sofferenze quotidiane. Ho ascoltato storie emozionanti, commoventi e appassionanti; ho incontrato occhi tristi, arrabbiati, confusi; ho sentito come un brivido sulla pelle la ricerca affannosa di risposte, spiegazioni, soluzioni; ho provato disagio e inadeguatezza. E soprattutto nella mia testa girava e rigirava sempre la stessa domanda: e ora che dico???
Per fortuna –mia e dei mal capitati– nei colloqui non ero mai sola, avevo sempre i professionisti dell’SOS affianco a me. Attraverso le loro parole, il loro modo di stare in relazione, le loro riflessioni, ho imparato tante cose, in primis che i colloqui sono un incontro di emozioni. Ho imparato che occorre stare empaticamente affianco a chi soffre, e subito dopo tornare a porsi di fronte a loro. Ho imparato che le teorie, le tecniche e le strategie sono cornici, che permettono di dare senso ma che rischiano, talvolta, di impoverire l’eterogeneità del quadro. Ho imparato che non esistono parole giuste o sbagliate da dire, ma solo punti di vista “altri” con i quali proporre letture diverse, riscoprire risorse e possibilità.
Come in un caleidoscopio di apprensioni, pensieri e riflessioni, ripercorrere questi mesi di tirocinio, mi permette di dire sia che sono cresciuta come persona e professionista, sia che il percorso professionalizzante è ancora lungo. Mi consente però anche di provare un’inebriante felicità all’idea di percorrerlo tutto, passo dopo passo, fino all’ultima emozione!