Il 16 settembre 2001 la Casa Famiglia del Borgo ha accolto i primi 4 ragazzi. Erano giorni terribili per il Mondo. L’11 settembre, insieme alle torri gemelle, sono cadute tante certezze dell’occidente e si sono affacciate tante paure e fragilità. Noi, riuniti nella stanza del direttore Don Maurizio Verlezza per mettere a punto gli ultimi accorgimenti necessari per aprire la casa famiglia alla quale stavamo lavorando da circa due anni, sentivamo dentro di noi questi sentimenti contrastanti. Paura, fragilità, non sentirci pronti e nello stesso tempo percepire che eravamo dentro un sogno più grande di noi stessi. Un Sogno che veniva da lontano. Un sogno che potevamo realizzare con una risposta concreta alla periferia di Roma per rispondere, nel nostro piccolo, al caos che sembrava aver preso il sopravvento. In questo nuovo clima di incertezze, tra il covid, la guerra, la crisi energetica, di nuovo possiamo prendere posizione: fare la nostra parte, continuare a farla in una staffetta nella quale il testimone passa da ragazzo a ragazzo o da ragazza a ragazza e da educatore a educatore, da famiglia a famiglia, da volontario a volontario. Tanta vita. Io sono dentro e fuori nello stesso tempo. Osservo e mi nutro di questa vita cercando di fare anche io la mia parte. Ogni anno è diverso. Ogni volto è diverso. Mi scorrono davanti tutti questi volti.

Mi fermo su uno in particolare. Quello di Massimo. Forse perché non ha lasciato solo noi, come fanno tutti i ragazzi arrivati ad un certo punto del loro percorso di crescita, ma ha lasciato questo mondo, ha lasciato un vuoto dentro di noi che non si potrà colmare mai del tutto come ogni vuoto lasciato dalle persone care ma che rappresenta tutta l’essenza di questi 20 anni che si comprende solo se si assume tutta la gamma di emozioni che come esseri umani possiamo provare. Perché 8 o 10 ragazzi, con 6 educatori, con le famiglie, i volontari, i salesiani, presi così tutti insieme, rappresentano una miscela di emozioni che a volte è così esplosiva che si può comprendere solo dopo averla vissuta, quando con calma si è riusciti a rimettere in ordine pensieri e brandelli di vita.

Massimo dicevo. Ricordo che è arrivato in ufficio della Casa Famiglia, don Francesco Pampinella, il salesiano responsabile incaricato della stessa in quei primi anni. Era anche l’economo del Borgo e non aveva tantissimo tempo per i ragazzi ma era comunque un riferimento paterno per tutti. È  arrivato, appunto, in ufficio dicendo che aveva chiamato, fatto insolito per noi, l’assistente sociale del Policlinico Umberto I chiedendo se potevamo accogliere un ragazzo che stava per essere dimesso dall’ospedale. Era arrivato dal Kenya grazie ad una associazione attivata dal console italiano, visto che di un cittadino italiano si trattava. Un ragazzo trovato in condizioni critiche in un centro di un paese vicino alla capitale che era stato portato lì dopo la morte dei due genitori per aids, lui italiano e lei keniota. Lo avevano ritrovato che viveva solo, dormendo sotto il letto del padre defunto. In Italia a Roma è stato curato e di fatto salvato da tutto lo staff del reparto di malattie infettive che nello stesso tempo si era affezionato a questo furbo pischello tutto nero e paffutello, dalla battuta sempre pronta e dalla capacità di sedurre chiunque. In effetti lo avevano riempito di doni e la sua camera di ospedale era piena di oggetti e giochi di ogni genere; in particolare, una famiglia che aveva creato con lui un legame affettivo, è riuscita a farlo mangiare e prendere le medicine rinforzandolo con regali via via più impegnativi. Don Francesco mi ha detto che aveva preso appuntamento per andarlo a conoscere in ospedale, intanto ne avremmo parlato alla prossima equipe. Come spesso ci è capitato in altri casi complessi, nonostante interrogativi e perplessità: “ce la faremo?” “avrà bisogno di cure mediche” “Se è anche lui sieropositivo dovremmo fare attenzione anche per gli altri ragazzi”, dopo averci riflettuto insieme all’unanimità, abbiamo espresso il nostro “si” a conoscere e andare avanti.  Naturalmente in ospedale Massimo ha sedotto anche il nostro buon Don Francesco! L’assistente sociale non ha trovato parenti entro il quarto grado che potevano o volevano occuparsi di lui, cioè non ha trovato proprio nessuno che in Italia lo conoscesse. E così è arrivato da noi. Parlava un italiano tutto suo appreso in famiglia e con i turisti italiani in Kenya. Lo abbiamo subito portato al nostro centro diurno per il corso di italiano e la licenza media come facciamo di solito in queste situazioni. Anche lì si è fatto benvolere da tutti. Il sabato e la domenica alcuni medici dell’ospedale continuavano a venirlo a trovare da noi e a portagli un po’ di tutto, anche contro le nostre indicazioni di bravi educatori, e così ha continuato a fare questa coppia da lui conosciuta.

Dietro quel sorriso contagioso quanta malinconia! È emersa poco a poco. Si isolava dagli altri ragazzi in alcuni momenti e piangeva. Piangeva in modo disperato a volte. Sapeva di stare male e che avrebbe dovuto curarsi tutta la vita. Aveva le sue impuntature, è capitato che si è chiuso in bagno minacciandosi di tagliarsi le vene per poi aprire la porta dopo che lo abbiamo rassicurato sul fatto che gli volevamo bene, che volevamo stargli accanto e che se ce ne voleva doveva fidarsi… quando è  sceso giù in sala si è liberato in un pianto infinito. Da noi tutto sommato stava bene, ma un giorno ha tirato fuori con forza, in un dopo pranzo assolato nel cortile, la sua richiesta più profonda: “Io voglio una famiglia! Non voglio rimanere qui! Sto bene ma non voglio starci. Voglio una famiglia. Io avevo una famiglia mia!”. Ci siamo guardati. Ricordo di aver guardato il cielo. Perché non si può far finta di nulla di fronte a tanta richiesta ma nello stesso tempo mi affioravano tanti dubbi: “Ma chi lo prende un ragazzo malato di 15 anni che tra l’altro non sa stare un attimo fermo!”.  Eppure… Al Borgo abbiamo un servizio che si occupa di affido e perciò dopo averne parlato in equipe, abbiamo fatto una richiesta precisa: questo ragazzo aveva bisogno di una famiglia affidataria, la richiedeva, si sarebbe trattato di un affido a lungo termine. Il Tribunale dei Minori avrebbe potuto anche arrivare a chiedere un’adozione. Non c’era nessun parente. Dopo qualche settimana gli operatori, che si occupavano della formazione delle famiglie, ci hanno detto che ci sarebbe potuta essere una famiglia. Dopo un confronto con i servizi e con il tutore, si sono fatti tutti i passaggi del caso. Questa famiglia aveva due figli maschi, uno più piccolo e uno più grande. Nel giro di poco tempo, necessario a tutti i componenti della famiglia a riflettere sulla possibilità di rispondere a questa richiesta, Massimo è stato accolto. Uno degli educatori della casa famiglia ha continuato a seguirlo per i tanti bisogni sanitari di cui necessitava ed era un punto  di riferimento essenziale per lui. È andato a scuola, ha fatto numerose amicizie, è cresciuto in altezza e in umanità. Poi come spesso accade, verso i 19 anni ha chiesto di poter andare a vivere da solo. Voleva la sua autonomia. Gli cominciavano a stare strette le regole di casa. Alla fine era cresciuto per lo più da solo e senza riferimenti. Così è stato. Si è trasferito.  Purtroppo per un po’ abbiamo perso le sue tracce. Non si faceva sentire spesso. Ha smesso di curarsi e si è lasciato andare probabilmente all’uso di particolari sostanze. È tornato anche a cercare la prima coppia che lo aveva aiutato appena arrivato in Italia ma solo per cercare in modo strumentale aiuti economici. Un giorno è arrivata una telefonata di quelle che non vorresti mai: il pronto soccorso dell’ospedale Pertini ci informava, visto che aveva da noi la residenza, che era deceduto per arresto cardiaco. Ricordo grida e lacrime. Poi le telefonate tra noi e con la famiglia affidataria che insieme eravamo di fatto la sua famiglia. Al funerale tantissimi ragazzi. Eppure quello che ha detto il fratello più piccolo è il seme di speranza che da senso a tutto: “Voglio rimarcare il concetto: la vita non ha condotto Massimo alla mia famiglia, ma la mia famiglia a lui. È QUESTA LA RIVOLUZIONE! Noi siamo grati a mio fratello Massimo perché, forse inconsapevolmente, ci ha dato la gioia di respirare nella nostra casa un’aria di libertà prodotta da un Amore gratuito: dalla condivisione con lui della nostra stanza e del nostro armadio da parte mia e di mio fratello, al posto di “capotavola” ceduto da mio padre e all’attenzione di mia madre verso un figlio da formare come persona e da accompagnare verso una società troppo frettolosa nel selezionare e, spesso, nello scartare i propri componenti. Il fatto che oggi siamo tutti qui ad offrire il nostro ciao a Massimo è per la mia famiglia il segno che il mondo può cambiare, perché anche voi, come noi e insieme a noi, l’avete accolto come amico e, per la Comunità parrocchiale e per il Borgo Don Bosco, anche come fratello in Cristo. Questa esperienza va però “ascoltata”! Sì! L’esperienza di avere conosciuto Massimo e di avere condiviso con lui momenti indimenticabili” (come li ha definiti lui stesso!) va ASCOLTATA. Va cioè portata dentro di noi, suoi amici, e coltivata con il cuore e l’intelligenza. Ci deve cioè aiutare a comprendere il senso della vita e a non rinunciare mai a noi stessi, ai nostri sogni, al desiderio di cambiare il mondo! LA SUA MORTE, LA MORTE DI UN RAGAZZO VENUTO DALL’AFRICA, PIENO DI ALLEGRIA E CAPACE DI REGALARE SORRISI SENZA INTERESSE, DEVE ESSERE ASCOLTATA, PERCHE’ VOGLIAMO UN MONDO NUOVO!”.

Sul ricordino che abbiamo distribuito ai ragazzi un mese dopo la sua morte, piantando un albero di ulivo che ancora sta crescendo nel giardino della nostra Casa Famiglia abbiamo scritto: “siamo tristi, più soli, ma anche grati… nessuno può toglierci tutti i momenti passati insieme… nessuno può cancellare le tracce del tuo sorriso dentro di noi… tu resterai sempre parte delle nostre vite”.